Mio Padre.

Premessa: (“Albè, hai rotto er cazzo cò ‘ste premesse“) questo post non ha alcuna pretesa di utilità, è solo un momento di introspezione, uno di quelli in cui uno pensa che scrivere possa essere utile a rimettere a posto qualcosa o quanto meno a fare un minimo di ordine mentale. Il fatto di rendere pubblico ciò che si scrive aiuta: come quella storia di parlare da soli.

Mio Padre, dicevo. Classe 1939, prematuramente scomparso nel 2006, quando aveva da poco cominciato a farsi i cazzi suoi come voleva lui: l’eredità di un lavoro pesante, uno di quelli che non ti si staccano più di dosso, nemmeno quando smetti di lavorare. Un lavoro che non aveva mai “portato a casa”, del quale si sapeva poco e non si parlava mai. Un lavoro che aveva condizionato le nostre vite, i nostri trasferimenti, i nostri 20 e più traslochi, ma che a lui piaceva e che noi (eravamo solo tre, io figlio unico, ricordate ?) accettavamo di buon grado.

Io amavo mio Padre. Lo amo tuttora, ma adesso è diverso, non ho più modo di dimostrarglielo. E – quel che è peggio – ho la costante sensazione di non averglielo dimostrato abbastanza quando avrei potuto. Si chiama rimpianto, è una delle tante sensazioni che provano gli esseri umani.

Non abbiamo mai litigato, io e lui. Non ho mai dovuto aver paura di lui, da lui ho imparato che qualsiasi sia il problema se ne può parlare e si può risolvere. Io avevo fiducia in lui e lui in me. In casa non c’erano zone “off-limits”, nessun cassetto chiuso a chiave. Ricordo che quando scoprì che avevo iniziato a fumare (avevo 15 anni) disse: “ti dovrei rimproverare, ma come posso farlo visto che ti fumo in faccia da quando sei nato (erano altri tempi, eh, si fumava al ristorante), e che ti mando giù al bar a comprarmi le sigarette ? Solo, potevi dirmelo, ti avrei fatto buttare giù inspirando la prima boccata e ti sarebbe passata la voglia per sempre. Ma ormai ci siamo… fai vedere, che fumi ? Marlboro ? Dammene una, và, vediamo come sono“.

E ancora, quando fu il momento del “motorino”, la storia fu: “senti, ti ho preso un cesso usato a duecentomilalire, sta qui sotto, ripulito e con le gomme nuove. Andiamo a farci un giro, io ti sto dietro con la moto, vediamo come te la cavi. Almeno è il tuo e non vai a prendere qualche muro seduto dietro a qualche tuo amico (erano sempre altri tempi, si andava in due e senza casco)”.

Si comincia a capire il tipo ?

Sto andando a ritroso… arriviamo a quando un giorno (avevo 9 anni), era una domenica mattina, mi portò sulla pista dei collaudi della motorizzazione civile sulla Salaria (oggi è inaccessibile, allora era aperta), scese dalla macchina e mi disse: “dai, tanto la macchina lo sai come funziona, regolati il sedile e guida“. E guidai. Era una Autobianchi A112, facile facile, ma da quel giorno per un anno e più, ogni domenica mattina presto quella pista era “nostra”, e fu così che il sottoscritto quando anni dopo andò a sostenere il suo esame di pratica (rigorosamente da privatista) per la patente fu costretto a fingere di essere un completo incapace per non sembrare troppo “sciolto” e rischiare la bocciatura.

Ancora un po’ indietro… aprendo il cassetto del comodino, “sai cosa è una pistola, no ? Ecco. Questa è una. Sta qua. E’ carica. Da sola non fa niente, è un pezzo di ferro, ma se tiri qua quello che hai davanti lo distruggi. Non è come i tuoi giocattoli, questa può fare male davvero. Ti prego di non toccarla se non ci sono io, non farla vedere agli amici, perchè non è roba tua. Domani andiamo da una parte e ti faccio vedere come si usa e i danni che fa“. Bene, ci credereste ? Non ho mai avuto un “incidente” con le armi, nonostante ne abbia sempre avute a disposizione.

Da parte mia, ho sempre fatto in modo di guadagnarmi la fiducia che mi veniva data: ero uno dei pochi (se non l’unico) della mia “cricca” di amichetti che già a 14 anni poteva uscire dopo cena e stare fuori fino alle 23. Era l’orologio che comandava: non c’è stata una sera che io abbia tardato un minuto, perchè i patti erano chiari. “io vado a letto presto, ma quando torni me ne accorgo, perchè è solo allora che mi addormento davvero: rientra una volta sola dopo le undici e non esci più“. E così fu, in saecula saeculorum, amen. Ed è per questo, credo, che ancora oggi sono la puntualità fatta persona. Nessuno ha mai dovuto aspettarmi, nemmeno un minuto in più rispetto all’orario pattuito.

Più scrivo, più me ne tornano in mente, ricollego tante mie abitudini e tante mie “fissazioni” ad altrettante cose che facevamo insieme… ad esempio ho una mania per gli orologi con le lancette fosforescenti, ed è perchè tornando ancora indietro, uno dei modi per farmi addormentare (avevo paura del buio) era lasciarmi il suo orologio sul comodino: “se qualcuno entra in questa camera, la prima cosa che fa è fregarsi l’orologio: se apri gli occhi e non lo vedi, allora accendi la luce e chiama“.

Adesso io non so se conoscesse il “metodo Montessori”, o se avesse costruito lui un suo sistema. Costruito da zero, dato che lui era cresciuto in tutt’ altro modo, decisamente più difficile. Fatto sta che per quanto mi riguarda non ne ha sbagliata una.

E ci tenevamo per mano. Spesso e volentieri. E quando ho dovuto lasciare la sua mano, quando sono stato “di troppo” in quella camera d’ospedale dove altri hanno preso il controllo, ho capito che quella fase era finita davvero. Ed è anche per questo che scrivo, sono in un’ altra “fase”, ma almeno con le parole ancora voglio tenerla stretta, quella mano.

Oh, prima che mi si tacci di sessismo (con il ddl Zan alle porte, non si sa mai), sia chiaro che ho anche una Madre, alla quale devo altrettanto che a lui: solo che con lei posso ancora parlare a voce, e di lei vorrei scrivere, si, ma il più tardi possibile. (E questa frase la scrivo solo con la destra, perchè la sinistra è impegnata in un gesto apotropaico).

2 pensieri riguardo “Mio Padre.”

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