Citazioni

Qui di seguito delle frasi a mio modesto avviso significative, che ho estrapolato dal libro “Vento dell’est” dell’autrice Chiara Albertini-

Dove potrebbe portarti il vento se decidessi di ascoltarlo? Lungo quali sentieri nascosti e inaspettati potrebbe condurti, se ti affidassi a lui? C’è un vento per ogni stagione. E c’è un vento per le stagioni dell’anima…

«Profuma di Storia…» ripeté Ben. «Che bella frase!» «Sì, perché ha il sapore antico di cose passate che non potranno più tornare, ma soltanto essere ricordate.

«Mi diceva che i libri nascono per curare l’anima, di non dimenticarmelo mai… e io sono cresciuta con queste sue parole, le ho fatte mie.

Sentiva un profondo bisogno di abbandonarsi al lento movimento dell’acqua. L’aveva cercato, quel movimento, lanciandogli occhiate fugaci, consapevoli. Per poi distogliere lo sguardo ogni volta. Ma invano. Quel bisogno si era fatto sempre più forte, portando con sé l’eco della sofferenza patita, come se qualcosa dentro di noi ci inducesse a rivivere quei momenti nonostante i nostri sforzi per allontanarli.

…quel vento che ognuno di noi ha dentro sé. C’è chi lo insegue, facendosi travolgere da lui, e chi invece lo combatte, allontanandolo. È sempre e soltanto questione di scelta.

A proposito di (ri)considerazioni su bene, male e karma vari

Un mio vecchio racconto: Karma

«Come diavolo è potuto succedere?»

Nessuno risponde. Qualcuno nicchia e si volta da un’altra parte, altri mimano un boh.

L’unica voce che si leva è quella del medico legale che dopo aver finito di compilare alcuni moduli sul tablet annuncia: «Potete spostare il corpo, sempre se ce la fate a tirarlo fuori da lì sotto.»

L’ispettrice, ancora in attesa di risposta, reagisce alla frase del medico con il ritardo classico di chi è stato svegliato di soprassalto nel cuore della notte. Lancia un’occhiata interrogativa al responsabile della Scientifica, che conferma il via libera. Due agenti della Mortuaria entrano in scena controvoglia, evidentemente poco avvezzi allo spettacolo che hanno sotto gli occhi nonostante i molti anni di servizio.

«Come mai si trovava qui?» Chiede l’ispettrice, toccandosi distrattamente il naso con l’indice destro, nella convinzione che il punto nero, appena accennato la sera prima, ora abbia deciso di mostrarsi in tutta la sua arroganza.

Il collega accanto le risponde con lo stesso risicato entusiasmo che dedica alla sua immagine mattutina riflessa nello specchio. «Questo è strano. Non ne aveva motivo.» Allarga le braccia a indicare tutt’attorno, come presentando la scena del crimine a un pubblico immaginario. «Quest’ala dell’azienda è in costruzione, ma i lavori sono fermi. La vittima è il capoccia di tutta la baracca qui. Il suo autista personale dice che prima di salire in auto si è voltato verso questo capannone come se qualcuno lo stesse chiamando e si è fiondato dentro senza dare spiegazioni. L’autista però dice di non aver sentito chiamare nessuno. Ed eccoci qui.»

L’ispettrice annuisce, più per darsi un tono che altro, sbircia l’orologio e si domanda quanto ancora ci vorrà perché possano tutti andarsene a casa, visto che il suo turno di reperibilità sta per finire e l’aspetta una settimana di ferie.

Ma i tempi si allungano, un via vai di agenti e responsabili della fabbrica si alternano per cercare di capire come recuperare la vittima. Allora decide di portarsi un po’ avanti col lavoro. Apre l’app riservata della Polizia di Stato e inizia a compilare i campi obbligatori necessari per redigere il rapporto preliminare dell’indagine.

Spunta, clicca, scorre, seleziona, nella casella Causa del decesso, esita.

Passa alle generalità della vittima domandandole al collega. Lui le risponde e lei inizia a digitare il nome finché un lampo di memoria la fa rimanere col dito indice a pochi millimetri dal display. «Perché il nome non mi è nuovo?»

Il collega sembra ignorarla, con le mani affondate nelle tasche del giaccone, intento a osservare il lavoro di recupero del cadavere.

«Oh, mi senti?» Lo riprende lei.

«Sì, scusa. Dicevi?»

Sospira. «Perché il nome non mi è nuovo?»

«Ah sì, circa un anno fa. Scompare il fratello. Fratello e socio contitolare dell’acciaieria di famiglia. C’erano divergenze professionali e private. Insomma il tizio/socio/fratello scompare e tra le piste investigative si sospetta che sia stato fatto sparire da lui.» Indica il morto. «Ma il corpo non viene trovato, il tempo passa senza nuovi elementi e tutto finisce in un beneamato ca…»

«Eh, Pedron, ho capito, ho capito!» Sì, ora ricorda l’ispettrice, mentre apre il database online del Ministero e inserisce il nome.

Scorre velocemente il file del caso. La scomparsa, gli scarsi rapporti e la domanda di archiviazione come allontanamento volontario dopo un’indagine tanto breve quanto inconsistente. Unico dato certo il solo sospetto mai provato che l’uomo fosse stato ucciso e gettato in uno degli altiforni della fonderia.

Torna sulla schermata di compilazione poi blocca il cellulare mettendoselo in tasca. Si allontana piano dalla scena mentre un carrello elevatore guidato da un dipendente della struttura si avvicina a quello che resta del proprietario dell’acciaieria.

Cammina per i reparti, guardandosi attorno distrattamente, seguendo più il filo di un pensiero che un percorso vero e proprio.

Arriva al cospetto di un enorme altoforno quiescente, pieno di magma metallico ribollente che aspetta di essere trasformato in elementi da costruzione, piastre, cavi metallici, strutture portanti, putrelle.

Alcuni operai la osservano curiosi, dall’alto delle passerelle e dai ponti di comando dei macchinari, forse domandandosi del loro destino dopo la tragica fine del loro principale.

La donna lascia che lo sguardo rincorra i pensieri, tra l’altoforno e la porta sezionale antifiamma aperta dalla quale è arrivata.

Anche da quella posizione riesce a vedere una parte della scena della disgrazia. La parete crollata, la ferita nella struttura d’acciaio che compone il nuovo capannone. Il carrello elevatore romba mentre solleva una delle due parti della putrella che si è inspiegabilmente spezzata creando una rottura frastagliata, una serie di creste appuntite.

Cuspidi metalliche che si sono fatte strada nel corpo di un uomo, liberandone sangue e anima, organi e colpe.

Come diavolo è potuto succedere, si domanda ancora la funzionaria di polizia, che un pezzo d’acciaio spesso mezzo metro si sia potuto spezzare in quel modo.

Alterna lo sguardo tra la fornace e la putrella spezzata, più volte, poi rifiuta l’assurdo pensiero di una vendetta oltre la morte e riattiva lo smartphone, seleziona Incidente nella casella Causa del Decesso e chiude la pratica applicando la sua firma digitale.

21 novembre 2017

(RI) CONSIDERAZIONI

Lo scorso venerdi, complici anche alcuni impicci che hanno sottratto tempo alla mia presenza qui, vi ho lasciato con un articolo, diciamocelo, un po’ “loffio”.

Ma dato che io sono io, e non sarei io se non mi lanciassi periodicamente in uno dei miei “pipponi” filosofici quest’ oggi provvedo immantinente a trapanare le meningi di chiunque fra voi abbia la forza, la voglia ed il tempo di leggere con questa argomentazione che so dove comincio ma non ho idea di dove andrò a finire.

Come già detto, sono uno che raramente cambia idea e difficilmente riconsidera cose già esaminate e messe da una parte… però ogni tanto succede e quando succede è mia cura ammetterlo e spiegare anche cosa e perchè.

La convinzione che “riconsidero” oggi è quella che ho sempre trovato magistralmente riassunta (anche come metafora) nell’ ultimo verso della canzone “The End” dei Beatles, che oltretutto è l’ultimo brano (penultimo se si tiene conto dei 23″ di “Her Majesty” che però sta lì per sbaglio) dell’ ultimo LP inciso dai Fab Four mentre erano ancora un gruppo: “…and in the end, the love you take is equal to the love you make“.

In altre parole ho sempre creduto – anche come risultato della mia formazione – che la vita degli esseri umani, in termini di “bene” e di “male” fosse un’ equazione a “saldo zero”: il bene che fai prima o poi ti torna, così anche il male e fra loro si bilanciano. Alla fine, secondo un ragionamento strettamente scientifico, quando uno nasce, nasce “puro” (non avendo ancora fatto niente di bene e niente di male) e allo stesso modo quando muore “chiude il conto” a zero avendo ricevuto nel corso della vita tanto bene per quanto ne ha dato e tanto male per quanto ne ha fatto.

Il mio primo grosso sbaglio (quello che salta all’ occhio subito) è quello di aver voluto applicare a questo argomento (diciamo, “metafisico”) un ragionamento “scientifico”. E’ evidente che quasi sempre lo “zero” non torna. Se prendiamo una singola persona (facciamo un nome random, che so, Adolf Hitler) e non consideriamo tutto il contorno, il problema esce subito fuori: è nato “puro” come tutti, ma per quanto possa essere morto male è difficile ipotizzare che abbia potuto fare tanto bene da bilanciare il male che ha creato.

Si potrebbe controbattere (e qualcuno ha anche il coraggio di farlo) inserendo nell’ equazione le “sliding doors” e le teorie distopiche: nel caso di Hitler, ad esempio, si potrebbe arrivare ad affermare che fra i milioni di vittime della sua follia e delle sue azioni ci sia stata una singola persona che – se non fosse rimasta uccisa – avrebbe in seguito causato la fine dell’ intera Umanità. In questo modo il vecchio Adolf (pur facendo uno sfacelo) avrebbe inconsapevolmente salvato il mondo.

Ma se anche fosse vero questo, allora staremmo matematicamente fuori lo stesso, perchè in tal caso il “bene” sarebbe esageratamente superiore al “male”, quindi niente “saldo zero”.

Eppure – nei secoli – molti si sono posti questo problema e molti hanno preteso di “forzare” questo livellamento fra bene e male, a volte trovando spiegazioni anche più fantasiose delle “sliding doors” di cui sopra: prendiamo ad esempio un campo (quello religioso) dove la “scienza” viene tranquillamente messa da parte, trascurabile nelle sue leggi di fronte alla “fede“. Con la religione cattolica, ad esempio, i conti si fanno presto: tanto per cominciare l’ essere umano non nasce “puro” (abbiamo quindi già eliminato uno dei presupposti) ma si porta appresso il “peccato originale” che già da solo vale come passepartout per giustificare una quantità abnorme di male ricevuto. Ma poi, per buona misura, si inseriscono delle variabili scientificamente imponderabili (tipo il “Regno dei Cieli”) che rendono inutile qualsiasi calcolo matematico: sei uno che ha fatto 100 di bene ma in cambio ha ricevuto 1.000 di male ? Tranquillo, i 900 che mancano li riceverai in Cielo. Oppure sei una merdaccia che ha fatto sempre e solo del male, ma in Terra ha vissuto come un Re ? Niente paura, la sconti agli inferi, non scappi. Se prendiamo invece in considerazione le religioni che contemplano la reincarnazione, la storia è ancora più facile. Inseriamo nell’ equazione il “Karma” (sto semplificando, eh ? Senza offesa per nessuno) e il gioco è fatto: una vita non ti basta per equilibrare bene e male ? Nessun problema, ti reincarni e torni su questa terra infinite volte, finchè non ci sei riuscito: c’è qualcuno che tiene il conto preciso per ogni singolo essere vivente e non sbaglia un colpo. (Oh, che poi a conti fatti così è anche più comodo e logico, se vogliamo).

Come la giri la giri però, per un individuo razionale, ateo, rigorosamente “scientifico” e privo per scelta del supporto – e del conforto – di ogni forma di “fede”, mi sa che questa mia vecchia convinzione del “saldo zero” è una stronzata da archiviare. Per lo meno in questi termini.

Diciamo che alla fine della “riconsiderazione” odierna, pur continuando a sentire un brivido lungo la schiena ogni volta che ascolto quell’ ultima frase di “The End”, in merito a questo tema farò mia (leggermente modificata) la morale di un vecchio proverbio: “Fai del bene e scordatene, non fare del male, ma se ne fai fottitene“.

L’ avevo detto che era un ragionamento incasinato: chi vuole contribuire a dissiparne le nebbie (o ad incasinarlo ancora di più) ?