QUANDO ERO UNO “PSICODELINQUENTE” – PARTE PRIMA

Da cosa nasce cosa, e da un paio di commenti sul mio precedente post incasinato prendo la scusa per raccontare (in ben due puntate) un altro aneddoto (un altro di quelli per i quali vale ovviamente la legge dello “sti cazzi”).

Ho impressione di averne già parlato, ma forse era in un commento e forse su un altro Blog, quindi ri-racconto qui la storia con dovizia di particolari. In sintesi è una storia di misfatti, tradimento, denigrazione, ingiustizia e tardiva riabilitazione, ma soprattutto è una storia che insegna l’ opportunità e l’ estrema saggezza del farsi i cazzi propri, contrapposta ai danni creati da chi invece non se li fa.

I protagonisti di questa storia, oltre al sottoscritto, sono altri quattro ragazzotti, tutti fra i 15 e i 16 anni di età, tutti nella stessa classe delle superiori: il periodo si attesta a metà dei favolosi anni ’80, il luogo – manco a dirlo – è Roma. I ragazzotti sono: Alberto (io), A., G., M. ed R..

Un giorno, a scuola, R. comunica agli altri che si potrebbe andare ad una festa a casa della migliore amica della ragazza che frequenta al momento. L’ amica in questione è figlia di un noto negoziante di scarpe di via del Corso ed ha un appartamento di quelli che senza una mappa ti ci puoi perdere.

La cosa promette bene, siccome è un compleanno si mette insieme un regaluccio per la festeggiata e ci si presenta alla festa. Bell’ ambiente, un sacco di gente (alcuni più grandicelli, ma in media tutti minorenni)… cibo, musica, alcool e per non farsi mancare niente qualche “cannetta” che gira. Io e G., abbastanza annoiati e più attenti al cibo che ad altro ci limitiamo a stazionare in salotto occupando stabilmente buona parte del pur grande divano (ma c’è da dire che facevamo 240 Kg in due) e filosofeggiare intorno ai massimi sistemi aiutati pure dalle “cannette” di cui sopra. Ad un certo punto R. (quello che ci aveva portato alla festa) si avvicina e fa: “ahò, bada, questi stanno impaccati di soldi, guardate là, su quel mobile, me sa che quell’ accendino è d’oro” ! Io gli dico: “portalo qua, famme vedè che è“. Lui svelto lo prende e me lo porta. Io lo rigiro un po’, il responso è: “è un Dupont, abbastanza comune, nun è oro massiccio ma è placcato… nuovo costerà dù piotte, dù piotte e mezza (200/250.000 Lire). Fà ‘na bella cosa, nun lo lascià là, buttelo drento a ‘n cassetto… nun vorèi che qualcuno glielo zinca (ruba)“.

Per farla breve, all’ uscita della festa (in sintesi abbastanza deludente, in linea con le feste dell’ epoca) a notte fonda e tutti non propriamente sobri, R. si fruga le tasche del piumino e con il ghigno di chi l’ ha fatta grossa estrae nell’ ordine: l’ accendino di cui sopra, una calcolatrice Casio ad energia solare, un orologio digitale sempre Casio (di quelli che vanno tanto di moda oggi ma allora erano pezzi da battaglia) ed un paio di occhiali da sole RayBan Wayfarer neri (quelli dei Blues Brothers): “a regà (sarebbe il “ràaaga” dell’ epoca, in zona Roma), avemo fatto er pieno, cò questi stamo apposto ‘na settimana” ! Occhiataccia generale tipo “questo è scemo“, poi siccome nessuno dice niente mi faccio avanti io: “ma che sei cojone ? Vabbè che quelli manco ce faranno caso e vabbè che cò tutta quella ggente che cce stava pure che se ne accorgono nun ce capischeno ‘n cazzo… però me spieghi che ce famo ? Se pure je portamo tutto a Gianluchino (noto “ricettatore” per ladri di polli con banco a Porta Portese) ce darà si e no 20 sacchi (20.000 Lire). Aritorna su e rimetti tutto apposto, senza fatte vedè“!

A quel punto interviene la ferrea logica di G. che dice la sua: “seee… così la cazzata l’ avemo fatta doppia. Semo stati l’ urtimi a uscì, mò che famo, tornamo su pè rimette apposto ? Che je raccontamo, che semo quelli delle pulizzie ? E’ tardi pe’ tornà indietro, così se lo mettemo ar culo da soli. Dai, famo sparì ‘sta robba e levamose dar cazzo. Butta tutto ar secchio e ciao“.

L’ idea di buttare tutto non è universalmente condivisa e la cosa finisce così: l’ accendino passa nelle mani di M. (che era noto per non avere mai da accendere e rompeva sempre il cazzo agli altri), la calcolatrice la tiene R., occhiali e orologio passano ad A., che casualmente li aveva uguali uguali già di suo e quindi poteva dissimularne facilmente il possesso. Io e G. rimaniamo fuori da questa “spartizione”, forti della nostra estraneità al misfatto, pur acconsentendo a mantenere la più assoluta omertà in merito. C’è da dire che lo stronzo della situazione (cioè R.), era quello fra tutti che meno aveva motivo di “arraffare”: molto – troppo – “benestante” (non che noialtri fossimo propriamente morti di fame, anzi, ma lui era quello che stava meglio) e molto – troppo – di “buona famiglia”.

Tutto sembra esser finito, poi un certo giorno il mio telefono di casa (unico telefono a me riconducibile, erano altri tempi) comincia a squillare insistentemente. A casa mia non si rispondeva mai, c’ era la segreteria (cara vecchia Panasonic serie KX a doppia cassetta) a fare da filtro, quindi dopo una decina di telefonate a vuoto, finalmente dall’ altra parte si decidono a “lasciare il messaggio dopo il beep“: “buongiorno, sono il papà di R., compagno di classe di suo figlio. Il mio numero è ……….., avrei bisogno di parlarle, può richiamare per favore ? Sono in casa ad ora di pranzo e la sera dopo le 20“.

In sintesi era successo questo: M., che si era preso l’accendino, aveva avuto la splendida pensata di regalarlo al padre (che era un collezionista di accendini ma era anche un alto funzionario della Questura di Roma). Il padre ovviamente non si era bevuto la storia del “fortuito rinvenimento” per strada e – abituato com’ era a far “cantare” la gente – in tempo zero aveva ottenuto una piena confessione dal figlio in lacrime. Ovviamente l’ infame a questo punto dovendo fare un nome (in merito a chi l’ avesse fisicamente preso) e non volendo “tradire” l’amico R. (che conosceva sin dalle elementari), aveva ben pensato di indicare me. Questo a causa della mia caratteristica di essere sempre quello “nuovo”, quello arrivato da fuori di cui si sa poco e niente. In seguito, il padre di M. aveva contattato il padre di R. che a sua volta aveva contattato tutti gli altri anche se nel mio caso (grazie alla fida segreteria) aveva fatto un buco nell’ acqua.

Aggiungiamo per buona misura che mio padre, dopo avermi chiesto chi cazzo fosse questo padre di R. e che cazzo volesse da noi e dopo aver appreso per filo e per segno tutta la storia aveva deciso di non aver tempo da perdere e aveva comunicato al tipo in questione una cosa del genere: “buongiorno, io devo lavorare e quando sono a casa non ho voglia di parlare con chi non conosco. La segreteria c’è per questo. Se crede che mio figlio abbia fatto qualcosa di illegale chiami i Carabinieri, altrimenti non mi rompa i coglioni, grazie“. Poi, rivolto a me: “se mi hai detto la verità siamo a posto come sempre. Se mi hai detto una cazzata ti dò cinque minuti per rimediare, tanto nel caso lo vengo a sapere comunque“. Io ho confermato, e siamo stati a posto così. Come sempre.

A questo punto succede il panico.

(continua…)